Nel mondo occidentale in generale, ed in particolare in Italia, negli ultimi decenni si è assistito ad un progressivo spostamento in avanti delle età riproduttiva. L’età media del primo parto ha superato ormai i 31 anni, nelle grandi città si avvicina addirittura ai 35, e il numero medio di figli per donna in età fertile è circa 1,2. Questo fenomeno, legato a cambiamenti socio-economici e al miglioramento nella condizione femminile in termini di istruzione e di inserimento nel mondo del lavoro, ha portato da una parte all’aumento delle coppie che hanno difficoltà ad avere una gravidanza, e che pertanto fanno ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), dall’altra ad una maggiore richiesta di diagnosi prenatale.

La diagnosi prenatale può essere ottenuta con tecniche invasive o non invasive. Le tecniche invasive danno la certezza sulla presenza di un difetto congenito, e sono rivolte ad un numero selezionato di donne, mentre le tecniche non invasive costituiscono uno strumento di screening che si avvale di marcatori biochimici ed ecografici, e sono invece dirette a tutte le donne.

 

DIAGNOSI PRENATALE INVASIVA 

La diagnosi prenatale invasiva si avvale di un insieme di tecniche strumentali idonee a prelevare tessuti embriofetali o annessiali che consentono di diagnosticare vari disordini genetici.

Le procedure invasive di diagnosi fetale più utilizzate nei Centri di Diagnosi Prenatale sono: il prelievo dei villi coriali o villocentesi e l’amniocentesi.
E’ importante valutare preliminarmente, tramite ecografia, il numero dei feti e la loro disposizione topografica (o situazione) nella cavità uterina, la presenza di membrana amniotica e il tipo di placentazione, rilevare infine il sesso fetale, quando possibile, ed effettuare la valutazione della biometria e dell’anatomia.

TECNICHE DI PRELIEVO

Prelievo dei villi coriali o villocentesi
Il prelievo dei villi coriali o CVS (chorionic villus sampling) o biopsia dei villi coriali come tecnica di diagnosi prenatale invasiva è ormai consolidata e gode del vantaggio, rispetto all’ancora più diffusa amniocentesi, di poter essere eseguita in epoca più precoce. Può essere praticata, infatti, già alla 6a settimana di gravidanza, ma normalmente si effettua tra la 10a e la 12a settimana.
La diagnosi prenatale attraverso il prelievo dei villi coriali viene eseguita per malattie legate ai cromosomi, a singoli geni, per malattie del metabolismo e malattie infettive.
Per quanto riguarda l’analisi cromosomica, le principali indicazioni al prelievo sono rappresentate da: età materna maggiore o uguale ai 35 anni, precedente figlio con anomalia cromosomica, alterazioni cromosomiche nei genitori, precedente feto plurimalformato, anomalie legate al cromosoma X, sospetto di patologia malformativa embrio-fetale all’ecografia, scarsità del liquido amniotico (oligo-anidramnios).
In questi ultimi anni il riscontro ecografico della translucenza nucale fetale (raccolta di liquido nella regione posteriore del collo fetale) ispessita, la mancata visualizzazione dell’osso nasale fetale e test biochimici, PAPP-A (proteina plasmatica A associata alla gravidanza), free-βhCG (frazione β libera della gonadotropina gorionica) alterati al primo trimestre di gravidanza rappresentano indicazioni sempre più frequenti. Le malattie genetiche legate a singolo gene o mendeliane più diffuse, che si avvalgono dell’analisi attraverso lo studio del DNA fetale, sono rappresentate principalmente dalle talassemie, sindrome di Duchenne, fibrosi cistica, emofilia, sindrome X-fragile, ritardi mentali.
Anche numerose malattie genetiche legate al metabolismo quali malattie del metabolismo dei carboidrati, aminoacidopatie, malattie mitocondriali, lisosomiali, perossisomiali e alcune infezioni congenite (rosolia, toxoplasmosi, citomegalovirus, parvovirus) possono essere analizzate tramite prelievo dei villi coriali.
Il prelievo dei villi coriali può essere eseguito per via transcervicale o per via transaddominale. Le gravidanze multiple, spesso ottenute dopo PMA, non costituiscono un impedimento o una controindicazione al prelievo ma necessitano di maggiore esperienza e manualità per non incorrere in errori di campionamento tra i feti.

Amniocentesi

L’amniocentesi è la più comune tecnica utilizzata per la diagnosi prenatale invasiva. In relazione all’impiego ed ai tempi di esecuzione dell’esame si distinguono:

·         Amniocentesi precoce o precocissima (early amniocentesis) eseguita tra la 10a e 14a settimana (praticamente non più utilizzata)

·         Amniocentesi del II trimestre (midtrimester amniocentesis) eseguita tra la 15a e 20a settimana

·         Amniocentesi tardiva (late amniocentesis) eseguita oltre la 24a settimana.

L’amniocentesi convenzionale viene eseguita tra la 15a e la 20a settimana di gestazione. In dettaglio, le indicazioni per le indagini citogenetiche per anomalie cromosomiche fetali sono:

·         Età materna avanzata (maggiore o uguale ai 35 anni)

·         Genitori con precedente figlio affetto da patologia cromosomica

·         Genitore portatore di riarrangiamento cromosomico strutturale non associato ad aspetto fenotipico

·         Genitore con aneuploidie (alterazioni numeriche) dei cromosomi sessuali compatibili con la fertilità

·         Anomalie malformative fetali evidenziate con l’ecografia

·         Probabilità di 1/250 o maggiore che il feto sia affetto da sindrome di Down (o da altre aneuploidie) sulla base di parametri ecografici o biochimici valutati su sangue materno, effettuati con specifici programmi regionali in Centri individuati dalle singole Regioni.

Ulteriori indicazioni sono rappresentate dal riscontro di infezioni fetali e la determinazione della concentrazione dell’alfa-fetoproteina amniotica nei casi di difetti del tubo neurale o di altri metaboliti fetali. Il prelievo di liquido amniotico viene effettuato per via transaddominale tramite l’inserimento di un ago in cavità amniotica. L’inserimento dell’ago viene effettuato sotto visione ecografica e il sito viene selezionato cercando di evitare la placenta. Col monitoraggio ecografico l’abortività e le complicanze si sono significativamente ridotte. E’ stato stabilito che il rischio di aborto legato all’amniocentesi è di circa l’1%.

Il prelievo di sangue potrebbe essere effettuato dopo la 12a settimana di gestazione, ma routinariamente viene eseguito dopo la 18a settimana. Prima dell’esecuzione della procedura si esegue un esame ecografico per valutare la vitalità del feto e la sua posizione, rilevarne la biometria, localizzare la placenta e scegliere il sito più idoneo all’inserimento dell’ago, prima dell’inizio della procedura. Talvolta l’utilizzo del color Doppler può essere di ausilio per stabilire il punto di inserzione del cordone. Il prelievo si esegue per via transaddominale utilizzando un ago singolo.Quando la placenta è anteriore, l’ago viene inserito per via transplacentare fino a raggiungere la vena ombelicale nei pressi della sua inserzione senza penetrare nella cavità amniotica. Se la placenta è posteriore l’ago viene inserito transamnioticamente. Tra le complicanze legate alla cordocentesi le più importanti sono rappresentate dalle perdite fetali, incluso l’aborto spontaneo e la morte fetale endouterina. La percentuale di aborto dopo cordocentesi, entro due settimane dall’esecuzione della procedura e in gestanti a basso rischio, è di circa 2-3%.

DIAGNOSI PRENATALE NON INVASIVA

 

Tecniche ecografiche e biochimiche

La diagnosi prenatale non invasiva si avvale di test di screening che consentono di selezionare, nella popolazione generale, un ristretto gruppo di individui ad alto rischio per una determinata malattia a cui riservare poi la diagnosi invasiva. Quello che si richiede ad un test di screening è in primo luogo l’accuratezza (che è una misura della sensibilità e specificità), pur nella consapevolezza che un test di screening non potrà mai uguagliare o sostituire la diagnosi prenatale invasiva, poi la precocità, la semplicità ed infine il basso costo.
Lo screening ecografico nel primo trimestre, combinato spesso con il dosaggio biochimico dei marker feto-placentari, rappresenta attualmente il mezzo per ottenere la stima più precisa del rischio di patologie cromosomiche della gravidanza.

Test di screening biochimici

I più utilizzati test di screening biochimici prenatale utilizzati per malattie cromosomiche quali la Sindrome di Down sono attualmente:

1.    il tri-test: dosaggio di alfa-fetoproteina, estriolo libero e gonadotropina corionica (AFP, uE3 ed hCG) a 15-18 settimane di gravidanza, ecograficamente dimostrate

2.    il quad-test: dosaggio di alfa-fetoproteina, estriolo libero, gonadotropina corionica e inibina A (AFP, uE3, hCG e Inh-A) a 15-18 settimane di gravidanza, ecograficamente dimostrate.

3.    Il test combinato: il dosaggio della PAPP-A e della free-βhCG si esegue a 11-13+6 settimane contestualmente ad un esame ecografico per la misura della lunghezza vertice-sacro dell’embrione e la misura ecografica della translucenza nucale.

4.    il test integrato: alle gestanti sottoposte ad esame ecografico ed idonea misura della translucenza nucale(come per il test combinato), si eseguono il dosaggio di PAPP-A a 11-13 settimane e poi il tri-test (o il quad-test) a 15-18 settimane con espressione del rischio solo dopo il secondo prelievo

5.    il test integrato biochimico: alle gestanti sottoposte ad esame ecografico per la sola datazione nel I trimestre si eseguono dosaggio di PAPP-A a 11-13 settimane e poi il tritest (o il quad-test) a 15-18 settimane con espressione del rischio solo dopo il secondo prelievo

Test di screening ecografici


Lo screening ecografico si basa sulla valutazione di alcuni parametri biometrici e funzionali fetali, che risultano significativamente differenti nei feti con patologie cromosomiche rispetto ai feti con cariotipo normale. Molte di queste alterazioni sono già visibili e misurabili con l’ecografia eseguita nel primo trimestre tra la 11a e la 14a settimana. La misura ecografica della translucenza nucale viene utilizzata come un test di screening che considera l’età materna, la storia anamnestica e la lunghezza vertice-sacro fetale; associando a questi parametri il dosaggio della free-βhCG e PAPP-A, è possibile valutare il rischio individualizzato di Sindrome di Down. Il riscontro di una translucenza nucale aumentata di spessore rappresenta un importante fattore di rischio per trisomia 21, 18 , 13 ed altre patologie cromosomiche; inoltre è stato riscontrato che i feti con la translucenza nucale aumentata di spessore e cariotipo normale sono a rischio aumentato per cardiopatie congenite e per numerose sindromi genetiche e malformative.
Sono stati inoltre introdotti negli ultimi anni altri marker ecografici di patologia cromosomica del primo trimestre, quali assenza dell’ossificazione dell’osso nasale fetale (circa il 70% dei feti con trisomia 21 presenta un ritardo di ossificazione), assenza di flusso o flusso invertito del dotto venoso durante la contrazione atriale, rigurgito nella valvola tricuspide; ma anche l’arteria ombelicale singola (più frequente nella trisomia 18) e la vescica aumentata di dimensioni (identifica un rischio aumentato di trisomia 13 e 18) sono valutabili precocemente.
Con l’ecografia del primo trimestre è anche possibile fare diagnosi precoce di alcune malformazioni fetali quali l’acrania, il mielomeningocele, l’exencefalia, la oloprosencefalia, per citare le più frequenti.
L’ecografia eseguita nel secondo trimestre di gravidanza è suggerita da molte società scientifiche internazionali come test di screening da proporre a tutte le gravide in quanto è in grado di identificare circa la metà dei feti con malformazioni. Alle donne in cui sono stati identificati fattori di rischio specifico precedenti la gravidanza (anamnesi personale e familiare, patologia materna) oppure comparsi durante la gravidanza è proposta l’ecografia diagnostica a partire dalle 18 settimane.

Le gravidanze da PMA rappresentano ormai una realtà sempre più importante, da cui il ginecologo e ostetrico non può più prescindere, soprattutto in una realtà come quella italiana, caratterizzata da un indice di natalità tra i più bassi in Europa, e un’età media al primo parto tra le più elevate. Si tratta sicuramente di gravidanze “preziose”, sia per la difficoltà del percorso che ha portato al loro ottenimento, sia a causa di fattori di rischio insiti nella coppia stessa e legati alla subfertilità. Sono gravidanze da seguire con particolare attenzione, sia le singole ma ancora di più le gemellari e le multiple. In queste ultime, la diagnosi prenatale presenta delle difficoltà aggiuntive rispetto alle spontanee, sia per quanto riguarda l’interpretazione di alcuni test di screening, su cui ancora manca un consenso unanime, sia per quanto riguarda l’esecuzione delle procedure invasive e non invasive. Inoltre, in caso di discordanza nella diagnosi tra i feti (per esempio uno portatore di anomalia cromosomica o genica e l’altro normale) si pone il problema del feticidio selettivo con ulteriori problematiche ostetriche, etiche e legali. Pertanto, pur non potendo enunciare delle regole che valgano indistintamente per tutte le donne, sicuramente è buona norma riservare solo a quelle con provati fattori di rischio (intrinseci o evidenziati dalle procedure di screening) il ricorso alle tecniche invasive che espongono alle possibili perdite fetali, seppure minime in mani esperte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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