Preservare. Se aprite un qualsiasi vocabolario (esisteranno ancora nelle case, nelle librerie?), cercate il significato di questo verbo. Probabilmente troverete una doppia accezione (complementare) del termine.

Significa proteggere dai mali, dai pericoli, dai danni. Ma anche premunire, cautelarsi. Prima che curare, avrebbe detto un famoso spot televisivo d’antan.

Ecco, la nostra lingua è bella pure per questo. Entra nel dettaglio.

Per un ginecologo, invece, l’attenzione verso una futura mamma, non ha bisogno di spiegazioni. E’ una predisposizione. Quando mi sono specializzato in Ginecologia e OstetriciaGranada, ho deciso quasi naturalmente di sottospecializzarmi (successivamente a Siviglia) in Fisiopatologia della Riproduzione Umana.

Capirete bene, allora, quanto possa tenere alle coppie che mi affidano la responsabilità di gestire un momento così delicato della propria vita.

Eppure, questa benedetta fertilità, non va solo “stimolata” qualora le contingenze lo richiedano. Va soprattutto preservata, per l’appunto.

Cercherò allora di spiegarvi in maniera più approfondita (e tecnica), il perchè.

I motivi per i quali rappresenta un bene preservare la fertilità possono essere, dunque, due.

1) medici (una malattia con le relative cure può malauguratamente alterare o intaccare l’apparato riproduttivo);

2) sociali (un gran numero di donne, sovente ritarda il concepimento per via del lavoro o degli studi che si protraggono).

Nella seconda fattispecie, il ricorso alla preservazione della fertilità è ancora relativamente poco frequente in Italia. In altri paesi come gli USA, è diventato un approccio consueto.

Esso è finalizzato a raccogliere gli ovociti nel periodo di massima qualità e di massima efficienza della funzione riproduttiva della donna. Conservandoli opportunamente fino al momento in cui si decide di utilizzarli per procedure come la fertilizzazione in vitro, e ottenere così il concepimento.

Nella prima fattispecie, invece, le attuali strategie proposte per preservare la fertilità nella donna affetta da neoplasia sono rappresentate da:

  • trasposizione ovarica (ooforopessi):
    consiste nello spostare chirurgicamente le ovaie il più lontano possibile dal campo di irradiazione e può essere offerta alle pazienti che devono essere sottoposte a radioterapia pelvica. La procedura può essere effettuata per via laparoscopica se una laparotomia non è necessaria per il trattamento primario della neoplasia. Nel medesimo intervento è possibile eseguire un prelievo di tessuto ovarico per crioconservazione (tecnica ancora sperimentale).
  • Crioconsevazione del tessuto ovarico:
    è una tecnica che ha il vantaggio di non richiedere né un partner né una stimolazione ormonale e che offre importanti prospettive per preservare sia la funzione riproduttiva sia l’attività steroidogenetica. Può essere effettuata in qualsiasi momento del ciclo mestruale, permettendo quindi di evitare il ritardo nell’inizio del trattamento chemioterapico ma necessita di un intervento chirurgico laparoscopico per il prelievo di frammenti di corticale ovarica.
  • Crioconservazione ovocitaria:
    è indicata in pazienti che hanno la possibilità di rinviare il trattamento chemioterapico di 2-3 settimane e che hanno una riserva ovarica adeguata per il recupero di un numero sufficiente di ovociti. Rappresenta un’importante strategia di preservazione della fertilità per prevenire l’ infertilità conseguente ai danni delle terapie antineoplastiche.
  • Utilizzo di LH-RH analoghi in concomitanza a chemioterapia:
    tali farmaci riducono la tossicità ovarica della chemioterapia che colpisce maggiormente i tessuti con rapido turnover cellulare. Lo stato indotto di inibizione dell’attività ovarica durante la terapia antiblastica potrebbe proteggere le ovaie stesse dall’effetto della chemioterapia. La somministrazione cronica di GnRH (ormone di rilascio dell’ormone luteinizzante), riducendo la secrezione di FSH (ormone follicolo stimolante), sopprime la funzione ovarica e potrebbe quindi ridurre l’effetto tossico della chemioterapia.

Ricordiamo inoltre sempre che l’entità del danno delle terapie antitumorali al potenziale riproduttivo femminile rimane variabile. Dipende dall’età della paziente, dal tipo di trattamento, dalla dose cumulativa somministrata e dalla dimensione iniziale della riserva follicolare ovarica.

Pure in questo frangente, preservare la capacità di riprodurre, in presenza di malattie o in previsione di una cura che una volta assunta possa provocare infertilità, in Italia è una pratica poco frequente rispetto a quanto sarebbe davvero opportuno. Considerando inoltre, le neoplasie dell’infanzia e della giovane età, l’occasione persa appare evidente.

Assodata questa importante chiarificazione intorno al tema, mi tocca continuare argomentando ancora. Se fossimo in un’aula, adesso chiamerei la fatidica pausa.

Riprendendo, vi racconterei che fra i tumori, che espongono a un elevato rischio di perdita della fertilità i soggetti di sesso femminile, ci sono quelli dell’utero e delle ovaie, alcune forme di leucemia, di linfomi o neoplasie del seno.

Riguardo alle cure somministrate nei tumori, sia la chemioterapia che la radioterapia possono avere effetti assai negativi sulla struttura e sulla funzione degli organi dell’apparato riproduttivo.

I fattori che permettono di prevedere il grado di danno provocato da queste cure sono:

  • tipo e dosi dei prodotti usati per la chemioterapia;
  • area interessata dalla radioterapia, dose di radiazioni e utilizzo di eventuali metodi di protezione;
  • via di somministrazione dei farmaci;
  • età del soggetto.

Non tutti i farmaci usati in chemioterapia hanno lo stesso rischio di danneggiare la fertilità. Fra quelli a rischio maggiore ci sono:

  • ciclofosfamide
  • isofosfamide;
  • clorambucile;
  • melfalan;
  • busulfan;
  • mostarda azotata

Fra quelli a rischio intermedio o basso ci sono:

  • cisplatino;
  • doxorubicina;
  • metotraxate;
  • 5-fluorouracile
  • vincristina;
  • vinblastina;
  • bleomicina;
  • actinomicina D.

D’altra parte, come scritto in precedenza, non è solo il tipo di prodotto a definire il grado di rischio, ma anche la dose e il tempo di esposizione al trattamento.

L’oncologo, l’esperto di PMA e la donna (o la coppia), dovrebbero condividere un’attenta valutazione delle priorità, fra inizio della cura per il tumore, da una parte, e attesa dell’esecuzione della stimolazione delle ovaie e della raccolta degli ovociti dall’altra, prima di scegliere la procedura da applicare.

Una volta guarita la malattia e accertato che le cure che mettono a rischio la fertilità non sono più necessarie, si dovrà valutare, nei tempi compatibili con le scelte della donna e nei modi conseguenti alla procedura di preservazione della fertilità applicata, come ottenere il concepimento.

In alcuni casi si potrebbero rendere necessari, anche in questa fase, approcci complessi e per questo si raccomanda di rivolgersi, per la preservazione della fertilità, a centri attrezzati e con una vasta esperienza nel campo.

Chi ha avuto la pazienza di seguire questa lunga disquisizione (inevitabilmente dottrinale), ora può farsi un’idea migliore rispetto alla tutela del concepimento

E magari tirare un…sospiro di sollievo: è suonata la “campanella scolastica” di cui sopra. Ci sarebbe a questo punto da parlare della preservazione della fertilità maschile.

 

 

 

 

Fecondazione assistita a Salerno, presso il centro di Pma Criagyn.

 

 

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